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 UOMO, NATURA, STRUMENTO, TECNICA 
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Iscritto il: 21/01/2014, 14:09
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Propongo qui questo testo “filosofico” leggendo il quale mi sono venuti alla mente numerosi interventi di magin, Oliviero ed anche miei nei quali ci si chiedeva, tra le molteplici cose legate all’arcieria antica e moderna, che cosa è un uomo (arciere nel nostro caso), che cos’è la natura, cos’è naturale, cos’è un arco storico etc. etc.
Qui ci sono, secondo me, alcune risposte a queste domande. Risposte (ma anche domande) che non sono strettamente legate agli argomenti che vendono lungamente ed animatamente dibattuti in questo forum.
Ma è poi così? Gli argomenti sopra esaminati sono veramente lontani dagli argomenti da noi trattati. Io ne dubito, ma non pretendo che voi siate in accordo, su questo, con me.
Il dibattito in Sagittando è sempre pacato, maturo, ancorché intenso; a volte complesso e prolisso, comunque interessante. Mi sono buttato in questa che forse, per qualcuno, può sembrare una provocazione, con lo scopo di mantenere vivi aspetti secondo me non secondari e in qualche modo, almeno per me, “fondanti” per qualsiasi approfondita discussione sui saperi umani; uno dei quali è certamente l’arcieria.


STRUMENTI UMANI

TECNICA QUINTESSENZA DELL’UOMO


....condurre l’uomo nel giusto rapporto con la tecnica…..Dicendo “uomo”….. (si) scambia il problema per la soluzione; il medesimo accade con quelli che si appellano allo spirito, all’intelligenza, all’assoluto, al cervello e così via: figure dell’intellettualismo superstizioso………..
L’azione intelligente, cioè diretta a un fine, è propria di tutti i viventi terrestri, ma la conoscenza intelligente esige la mediazione dello strumento esosomatico e questa sappiamo che è in cammino nel genere degli ominidi da milioni di anni. E’ nello strumento che troviamo una indicazione per comprendere la comparsa della specie umana. Il tratto essenziale dello strumento è che esso è da un lato un prolungamento del corpo vivente, ma non è vivente; e dall’altro è un frammento reciso del mondo, ma non è più mondo. Nello strumento e nella sua tipica azione mediatrice si rendono visibili attività e passività. Attraverso lo strumento l’attore legge se stesso come operatore e nel contempo comprende il margine passivo della sua azione, ovvero la presenza modellatrice del mondo ambiente. Il tratto successivo di questo cammino è la comparsa di quello strumento regio che è il linguaggio, che va inteso a sua volta come strumento esosomatico in grado di costituire la comunità umana e il suo sapere oggettivo. Questo cammino è propriamente ciò che merita di essere chiamato “lavoro”, perché ogni lavoro produce conoscenza e ogni conoscenza è un lavoro.
I nostri saperi si sono assai virtuosamente specializzati, ma hanno perso il contatto con le loro radici: così siamo soliti distinguere tra economia ed epistemologia, non ravvisando più i tratti che caratterizzano il lavoro come luogo primario sia della conoscenza sia della costituzione della casa dell’uomo. In senso letterale l’uomo è in tutto e per tutto il prodotto del suo lavoro, in quanto il lavoro è quella attività che produce resti comunitari. L’oggetto artificiale, cioè costruito ad arte, suggerisce il suo uso universale e insieme il limite della sua azione, atto a innescare sempre nuovi strumenti e l’ampliarsi delle conoscenze umane sul mondo.
Non diversamente opera quello strumento fondamentale che è il linguaggio, sebbene l’oggettività dei suoi prodotti non abbia come referente immediato il mondo, ma il costituirsi della comunità umana, cioè l’universalità della risposta intersoggettiva alla articolazione esosomatica della voce. Tocchiamo qui un punto fondamentale per la comprensione del senso delle umane conoscenze.

Esse non potrebbero essere quelle che sono senza la traduzione di ogni esperienza intelligente nei segni del linguaggio; ma a sua volta il linguaggio trova negli strumenti mondani la radice e il limite della sua significatività universale. In altre parole: nessuno pensa che la parola “mondo” sia il mondo, ma, come si vede, già il fatto di dirlo contraddice se stesso.
Proporre come soluzione la differenza tra “sociale” e “naturale” significa ricadere nel difetto di scambiare il problema con la soluzione. Che significa “natura”? Come affrontare il paradosso estremo per il quale la natura stessa è un prodotto del lavoro umano e cioè della cultura? Come evitare di intendere questo paradosso in termini astrattamente idealistici? Come, evitando il naturalismo ingenuo, avviare i fondamenti di un nuovo materialismo che sia in grado di far luce sul senso complessivo degli umani saperi?


Carlo Sini

da IL SOLE ORE del 10/9/2017


10/09/2017, 21:14
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Iscritto il: 12/06/2016, 8:06
Messaggi: 530
Località: Milano
(Detto che mi vedo già la faccia di Magin).

Per chi proprio non legge il professore tutti i giorni, 'soma' in greco vuol dire corpo ed eso-somatico vuol dire esterno al corpo. Quindi il brano fa una sorta di analisi di uno strumento esterno al corpo.
Un utensile, un arma, in quanto oggetto prolungamento del corpo, ma allo stesso tempo, esterno ad esso.
Per conseguenza, della nascita di una tecnica per il suo utilizzo e per il lavoro che con esso si compie.
Per conseguenza, della nascita del linguaggio, come strumento esterno per mettersi in comunicazione con un altro.
E quindi, conseguentemente, la nascita dell'oggettività.

Ecco, per me il tiro con l'arco è un processo che è esattamente l'opposto.
Il tiro con l'arco è endo-somatico.
E quindi il suo regno è l'assoluta soggettività.
Cerco di spiegarmi.

È ovviamente innegabile che l'arco sia un oggetto esterno al corpo.
Così come è vero che, una volta tagliato l'albero, esso non è più parte della natura, come dice il professore.

...Eppure, non è così.
Noi arcieri sentiamo che non è così.
Dentro al legno c'è ancora qualcosa di vivo e in contatto con la natura stessa.
È con questa vibrazione che bisogna rientrare in contatto per tirare con l'arco.
È questa che dobbiamo essere capaci di sentire, per farlo funzionare.
La tecnica, nasce da questa sensazione.
Poi, bisogna usare l'arco come una antenna, per entrare in sintonia anche con la freccia.
E quindi trovare con queste la sintonia poi col bersaglio.
Arciere-arco-freccia-bersaglio.
Non osi l'uomo separare ciò che Dio ha unito.
Tutto è dentro al corpo o meglio non c'è distinzione tra dentro e fuori.
Come non c'è distinzione tra questo arciere e la Natura.
C'è solo una vibrazione.

La tecnica che emerge da questo processo non può essere insegnata.
Ma chiaramente questo non va detto ad un allievo, perché oggi si corre il rischio di destabilizzarlo. Oggi bisogna "essere oggettivi".

La tecnica, invece, deve emergere.
E in ciò hanno pienamente ragione Matteo e anche Vittorio che ha iniziato questo discorso vent'anni fa, se non prima.
Quello che secondo me entrambi non hanno capito è che la cosa funziona così per tutti gli arcieri (compresi gli sportivi), in barba a quanto insegnano le federazioni, che spesso sono gestite da persone che hanno praticato questo sport male o non l'hanno praticato affatto. Magari pretendendo poi di insegnare agli insegnanti come si insegna.
Chi insegna per davvero, sa benissimo che funziona così.
Sa anche che è sempre funzionato così.
E come potrebbe essere diversamente?!?
:|

A noi arcieri tradizionali il compito, talvolta ingrato, di dire: "Oeh, sveglia, guarda che non si tira con le braccia...".
...anche questo lo si è sempre fatto.
:(


11/09/2017, 2:04
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