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 tirar d'arco storico o tirare storicamente con l'arco ? 
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Iscritto il: 09/12/2010, 22:17
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bella, Oliviero. E sparo alcune considerazioni specifiche sul tuo ultimo intervento. Voler comprendere e "sentire" dal di dentro oggi si può, e non in modo surrogato, ma se non si affronta anche "l'al di fuori" il messaggio è incompleto. L'etnografia qui insegna tantissimo e le raffigurazioni della Cueva del Los Barrancos di Valtorta lo suggeriscono empaticamente.
Il sistema per "ricomporre il puzzle" delle idee surrogate è in verità molto a portata di mano, più di quanto si pensi. Esistono, a mio parere, componenti tecniche implicite e fondanti ed altre molto accessorie che spesso ci fanno perdere tempo, nella migliore delle ipotesi. Finché ci si gira intorno, la lampadina non si accende e si fa un po' di casino e si fatica inutilmente.

Per me il percorso che può dare delle risposte, perchè fornisce altrettanti interrogativi, è la Caccia, ma quella vera.
Con un arco semplice e con tutto quello che ne consegue. Ma è una via lunga e complessa, una via di ricondizionamento totale del proprio ego, e se la si intraprende non si può sapere, a priori, cosa salterà fuori da noi stessi. Oggi (non ieri) è una via forte, una via che “dissolve e combina” e obbliga all’ introspezione. Ieri (e non oggi) era una via naturale.
Arco e freccia? nel contesto della loro tecnica diventano assolutamente marginali, tutte pippe mentali quelle che ci facciamo oggi. La via per uccidere è univoca, auto selettiva e tecnicamente banale. Devi arrivare vicinissimo alla preda.

Per sette anni sono andato alla ricerca di cervi nel bosco, sarei morto di fame 200 volte nel frattempo. Non per aver “sbagliato il tiro” ma per non aver mai voluto rischiare un ferimento, tirando da distante perché non riuscivo ad avvicinarmi abbastanza. Un’aberrazione, in questo contesto di antropologia sperimentale, una perturbazione assoluta se la tua è una ricerca che vuole dare risposte oggettive e non soggettive. Ma è comunque un grande passo avanti, e non ne puoi fare a meno. Nella sua specificità ti rendi conto di come le emozioni da bravo ometto del ventunesimo secolo siano interferenze micidiali in questo processo di “ricondizionamento”. La preda percepisce la tua volontà/desiderio di uccidere, e nella sua funzione di preda essa è assolutamente recettiva; in certi ambiti poco o nulla antropizzati è la stessa preda che cacciava Otzi.
La percepisce perché noi, ometti moderni, non riusciamo a mascherarla e a contenerla. Noi no, una caterva di sovrastrutture mentali artificiali dalle quali è difficile uscirne ci attanaglia, insicurezze, regole morali, stupidi paradigmi imparati sui libri e – importantissimo – il chiedersi che senso ha tutto questo, che ogni tanto, ve lo garantisco, salta fuori.
Solo dopo esserne usciti, da questo cerchio vizioso, ci si sente liberi e (forse) si comprende qualcosa di importante. E allora inganni la preda. Non hai artigli, canini acuminati e mascelle possenti ma hai l'arco, un'arma che ti permette di colpire a distanza ma non troppo (la distanza, appunto). La distanza è sempre troppa se "emani" questa volontà, devi recisamente disperderla. Se ci riesci te la trovi davanti, se vuoi la abbatti, se non vuoi -anche se riponi la freccia in faretra - l’hai già abbattuta.

Lo so che quello che scrivo può risultare impopolare, ma credo fondamentalmente che un arciere che non ha mai "provocato la morte" con una freccia dopo aver affrontato, desiderato intensamente, sofferto in un percorso di decontaminazione propedeutico ad una opportuna ricostruzione personale, non riesca mai bene ad aver chiaro cosa è importante e cosa non lo è. Cosa ci lega ai nostri progenitori e cosa è solo chiacchiere e distintivo.

Se guardare dal di fuori è studiare in modo approfondito, viva lo studio. La scienza rassicura senz'altro finché ci si limita a leggerla scritta da altri. Quando la si “fa” le cose cambiano, ed è una sofferenza che provoca quasi sempre frustrazioni formidabili e a volte soddisfazioni... quelle che derivano nel rendersi conto di non sapere, il più delle volte nel momento in cui si capisce quanto si è stati coglioni per tanto tempo. Poi diventa una droga in un percorso che non può aver fine.

Così e la Caccia, soprattutto con l'arco e la freccia primitiva perché ti costringe all'avvicinamento estremo: quell'attrezzatura rozza e diabolicamente semplice a cui non potrai mai addossare alcuna colpa "tecnica". E in te nascono profonde perturbazioni interne, che cozzano tremendamente con quelle al di fuori. Nei momenti calmi, si prova a fare una “media” sensata, si filosofeggia su gli effetti emotivi in relazione ad una realtà immanente, quella preistorica, di cui hai tanto studiato e letto. La falla di questo ragionamento è – mi rendo conto – la motivazione fondante. Basta far finta di aver fame....disse un mia amico. In realtà probabilmente sottovalutiamo enormemente il valore simbolico di questo "orrido" atto. E probabilmente lo era anche per i nostri antenati, anche se non sapevano certo cosa fosse un "comportamento simbolico" almeno fino al neolitico.

La sopravvivenza (sia in senso ontogenetico che filogenetico) tramite la caccia è un paradossale controsenso, fatto su cui sono concordi la maggioranza dei teorici di oggi. In una natura preistorica si poteva campare di frutti della terra e animaletti striscianti e saltellanti, ricchissimi di proteine senza rischiare la vita. Ma adesso mi fermo qui. Questo è probabilmente il punto più importante di tutta questa speculazione.


15/09/2016, 0:57
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non è che se uno è bravo alle garette sarebbe anche bravo in situazioni "reali". tra l'altro se non sbaglio anche Ishi pare non fosse molto bravo a tirare ai bersagli mentre bravissimo a caccia (mi sembra di averlo letto o sentito).


a ecco, l'ho trovato:

"Non era altrettanto bravo nel tiro al bersaglio. Mentre Artur Young, amico di Saxton Pope e arciere come lui, era in grado di eseguire l’American Round (30 frecce ogni 60,50 e 0 iarde) e di totalizzare 626 punti, secondo il Prince Reckoning e mentre Pope era in grado di totalizzarne 538, la migliore prestazione di Ishi era di 223. Ma per seguire le tracce, richiamare la selvaggina, aspettare e tirare in modo istintivo Ishi era un maestro."

Nel caso di Oetzi poi non c’era solo la caccia ma anche la guerra, prova ne è che qualcuno gli aveva tirato nella schiena. Qui il discorso cambia. Non cambia però il fatto che in una situazione “reale” non c’è tempo per farsi menate su mira o spine o cose così, si tira e basta e si tira per uccidere o per non essere uccisi … e normalmente si fallisce di meno.
ciao


15/09/2016, 11:23
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Ho provato quel che dice Vittorio.
So cosa vuol dire immaginare di essere una pianta e poi, quando la diventi davvero, smettere di pensare.
Smettere di essere un uomo.
Il battito del cuore che rallenta fino a spegnersi e il respiro che non è più.
E, dopo poco, divertirti a vedere la natura che ricomincia a vivere intorno a te, ignorandoti.
Cogliere lo sguardo degli animali sorpresi (e non come dovrebbe essere, spaventati) se è quando decidi di "essere" di nuovo.
Quindi terminare una vita.
Non perché vuoi o devi, ma perché questo è il disegno che la natura ha deciso per quel giorno.
Non descrivo quello che si prova, non tanto per senso di pudore, quanto perché chi lo ha provato, non ha bisogno di spiegazione è chi non lo ha provato potrebbe equivocare facilmente, giudicando con parametri che qui non possono valere.
(No, non credo sia una questione di essere impopolare).
Ma i miei sono stati episodi sporadici, che sono serviti al confronto con gli archetipi della vita e della morte.
Senza questo confronto, il mio cammino con l'arco in mano avrebbe, forse, corso il rischio di sapere di finto.

La guerra, anche simulata, invece, solitamente è tutt'altro.
Essa è un fenomeno fondamentalmente sociale.
L'esperienza più utile non è quella che fai con la Natura, ma quella che hai fatto con la psiche umana.
L'arco da guerra discende dalla caccia, ma ne è, almeno per certi versi, l'esatto contrario.
In primo luogo non è mai, o quasi mai, individuale e intimo.
Secondariamente, la volontà di essere presente ed attaccare con violenza non solo non deve essere mascherata, essa deve essere sviluppata al massimo livello nel singolo e in tutto il gruppo.
È quella che deve farsi sentire, molto prima che essa si concretizzi nella prima freccia.
Una cattiveria fredda e lucida, che nella caccia non si prova, in cui il rapporto con l'avversario può (anzi deve) essere di rispetto, ma è molto molto meno personale.
Non stabilisci un rapporto come si fa con una preda.
La distanza da cui si tira aiuta a non sviluppare un rapporto con esseri che vedi raramente in faccia e negli occhi.
In fondo, ciò aiuta.


Presto impari che non tiri contro un essere umano, ma contro un bersaglio che deve essere fermato.
Se non lo fermi, non scappa come un animale... Ti fa male lui, che ha un'altra cattiveria, tutt'altro che lucida e fredda!
Lui, l'adrenalina se ne frega di tenerla sotto controllo....
Spesso il tuo movimento è guidato dall'esterno, per cui la tecnica e l'addestramento diventano fondamentali, per essere efficace.
Essi devono avvenire automaticamente, senza pensare, a ripetizione.
Se le frecce arrivano a pioggia, spesso servono a metà: il gruppo conta.
Tutto questo cinema, come si diceva, al bravo cacciatore non serve.

Là, quando tiri, torni ad esistere con una volontà.
Qua, quando tiri, smetti di esistere.
Diventi uno strumento nelle mani di un altro.
L'addestramento al tiro è indispensabile perché non devi riflettere, non devi pensare.
Il tiro si adegua al bersaglio in modo automatico, il calcolo c'è ma è parte di quest'automatismo.
L'ooda loop, come ha suggerito Vittorio in altro topic.
Se sbagli, puoi rimediare con una seconda freccia.
(Là, non funziona mai così).

Quando superi l'ostacolo di tirare contro il tuo simile, paradossalmente, diventa un fatto molto meno intimo.
...per fortuna non ho mai ucciso un uomo, ma, paradossalmente, in una battaglia è un fatto molto meno personale.
Lo ha fatto qualcun altro. Non eri tu.
Un modo completamente diverso di affrontare vita e morte.
Più asettico, ci si scherza sopra ma non è per sdrammatizzare.
No, forse non è diverso.
Anche qui forse non hai "voluto" o "dovuto", ma in fondo quello che accade era il disegno di Dio per quel giorno.
Tanto vale accettarlo.
Chissà se riesco a spiegarmi.

Credo che Vittorio abbia ragione quando fa riferimento ad una sorta di processo di ricondizionamento alchemico (pensi di avere di fronte un uomo di scienza e guarda chi ti salta fuori!) in cui sapere a priori che uomo emergerà come prodotto finale è davvero difficile.
Certamente l'arco ti trasforma.
Cambia il tuo sistema di riferimento.
Capisci perché fratello sole e sorella morte, come di Francesco, sono da accettare come tali, elementi di un ciclo naturale che, in fondo, non ha mai fine.


15/09/2016, 19:27
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O forse no.
Questa notte, riguardavo le scene di Barranco della Valltorta.
Che artista formidabile.
In fondo, vedo un,allegoria degli Arcieri nel Tempo.
Un gruppo di uomini freddi e implacabili che hanno la meglio sull'istinto animale.
La messa in scena di una proto corrida, una danza della morte, dove chi vince ha successo perché riesce a trasformarsi in chi perde.

La verità è che non lo so.
Temo di essere stato trascinato in un argomento che non conosco a sufficienza.
Perdonatemi.


16/09/2016, 3:33
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i tempi andati sono persi per sempre e magari erano molto meno epici di come ce li hanno dipinti.

ma c'è un atavica paura dell'uomo in tutti gli animali segno inconfutabile che non di solo cervo viveva .

"the origin of war " un libro che cerca di investigare attraverso la medicina forense applicata ai reperti di uomini accoppati ci tramandano un uso de-predatorio di arco e frecce , un uso collocabile storicamente con la nascita delle comunità agricole .

a caccia ovviamente si può andare anche senza arco , l'uso di trappole è molto più redditizio , e vado oltre , in un contesto di grande abbondanza di selvaggina neanche bisogna sforzarsi più di tanto a trovare carogne commestibili.


18/09/2016, 13:14
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ISHI, IL SUO ARCO, LA CACCIA
da: ISHI UN UOMO TRA DUE MONDI, La storia dell’ultimo indiano Yahi, di Theodora Kroeber *, Jaka Book, 1985, pag. 170-171
E’ un libro pubblicato nel 1961 scritto dall’antropologa che ha conosciuto e studiato, per cinque anni Ishi, morto nel 1916. Ne riporto alcune pagine.

PARTE TERZA

Di solito Ishi si accontentava di avvolgere il suo arco in un pezzo di pelle, tuttavia riteneva che il miglior fodero fosse una coda di puma. Quando non lo usava, aveva sempre cura di stenderlo orizzontalmente, e di non lasciarlo mai in posizione verticale. In piedi, infatti, avrebbe continuato a lavorare, a sudare e a indebolirsi. Il modo di Ishi per verificare lo stato di un arco era quello di pizzicare la corda con le dita: se l’arco era in buone condizioni doveva rispondere con una nota alta e musicale. Una nota sorda e senza vita era segno che l’arco non era più buono o che era stato contaminato, forse dal tocco di una donna. Quando Ishi aveva ottenuto dal suo arco una nota chiara e musicale, spesso lo avvicinava alle labbra, e accarezzando la corda con le dita produceva un suono triste e melodioso con cui accompagnava un antico racconto yahi. Ishi amava il suo arco più di ogni altra cosa.
Per la fabbricazione delle frecce, Ishi preferiva a ogni altro legno i giovani e dritti steli del nocciolo. Come per l’arco, anche per le frecce bisognava rispettare sempre la posizione. Era sua abitudine fabbricare le frecce sempre in numero di cinque. Soltanto quando le cinque frecce erano terminate e messe a stagionare si poteva cominciare a lavorare a una nuova serie di cinque. La bacchetta di nocciolo veniva subito liberata della corteccia, poi, per togliere ogni irregolarità, Ishi la faceva rotolare avanti e indietro su delle pietre calde; successivamente la levigava accuratamente con dell’arenaria e le dava la definitiva lucidatura sfregandola contro una gamba, una tecnica, questa, che ricorda la lucidatura a meno degli ebanisti, in cui l’umore che trasuda dalla pelle penetra nel legno nel corso della frizione. Anche le frecce erano fatte su misura: la loro lunghezza doveva essere uguale alla distanza che separa la base dello sterno dalla punta dell’indice sinistro quando il braccio è in posizione di tiro, parallelo alla freccia – settantacinque centimetri per Ishi.
A volte, ma non sempre, Ishi utilizzava per la parte anteriore della freccia un legno più pesante, della lunghezza di una ventina di centimetri. Per unire insieme le due parti di questo tipo do freccia si serviva di un pezzo d’osso appuntito che metteva per terra, la punta in alto, tenendolo fermo con i piedi. Prendeva poi l’asta principale della freccia e, tenendola verticalmente, la faceva ruotare con le palme delle mani sopra l’osso acuminato finché non riusciva a praticare un buco di tre o quattro centimetri di profondità. A questo punto prendeva la seconda asta e ne affilava una estremità, fino a ricavare un perno che infilava nel buco dell’asta principale, fissandolo con resina o colla.

SEGUE...


18/09/2016, 15:20
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Immagine tratta da: Jim Hamm, ARCHI E FRECCE DEGLI INDIANI D'AMERICA, Guida completa alla costruzione di archi, corde, punte, frecce e faretre secondo le tecniche tradizionali indiane, Planetario, 2004, pag. 41


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18/09/2016, 19:48
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PARTE QUARTA

pag. 172-173

Ishi decorava abitualmente le sue frecce usando un motivo circolare bicolore, ma il suo interesse era più rivolto all’impennaggio che alla decorazione. Le penne preferite erano quelle dell’aquila, ma adoperava abitualmente anche quelle di poiana, di ghiandaia azzurra e di altri uccelli. Montava le penne in numero di tre, e tutte dovevano provenire dalla stessa ala, secondo un’usanza osservata dovunque dai buoni arcieri. L’angolo delle penne con l’asta è fondamentale per la traiettoria della freccia. Ishi montava le penne ad angolo acuto rispetto al senso longitudinale della freccia, non le fissava mai esattamente perpendicolari. Questo metodo, che è il più diffuso, favorisce la precisione di tiro dalla breve distanza, permette alla freccia di ruotare meglio e le assicura una migliore penetrazione, sebbene, ma questo a Ishi interessava meno, la velocità e la distanza ne risultino sacrificate.
La faretra usata da Ishi, e che gli fu portata via a Wowunupo il giorno in cui il villaggio fu scoperto, è ora visibile nel museo. Ricavata dalla pelle intera di una lontra, con il pelo all’esterno, è abbastanza grande da ospitare l’arco insieme alle frecce. Ishi se la gettava su una spalla e la lasciava penzolare dietro la schiena.
Con una semplice striscia di pelle legata intorno alla vita, l’arco e le frecce nella faretra sulla schiena, Ishi lasciava l’accampamento o il villaggio e andava a caccia. Si muoveva tra la boscaglia senza far rumore, finché raggiungeva una radura che gli sembrava adatta allo scopo. Qui si fermava, toglieva l’arco dalla faretra e si assicurava che la corda fosse ben tesa e annodata al legno, perché l’arco doveva essere sempre pronto. Prendeva poi alcune frecce e le metteva sotto l’ascella destra, in modo che fossero a portata di mano ma non lo ostacolassero nel tiro. Se udiva il rumore o sentiva l’odore di qualche animale, si nascondeva al riparo di una roccia o di un arbusto. Se necessario, sapeva attendere intere ore: non lasciava mai una preda individuata o sospettata per un’altra, magari più grossa e sicura. Da buon cacciatore, doveva riuscire a individuare la preda prima che questa si accorgesse di lui, e i suoi sensi, vista, udito e odorato, contribuivano tutti a dargli questo iniziale vantaggio.
Avvertita la presenza di un coniglio, se ne stava nascosto, e con due dita premute contro le labbra emetteva degli schiocchi leggeri, simili a dei baci: il delicato suono lamentoso del coniglio in difficoltà. Inevitabilmente qualche coniglio si avvicinava, rispondendo al richiamo, ma il cacciatore faceva bene a prepararsi a incontri più pericolosi. Talvolta all’invitante richiamo rispondevano un gatto selvatico, un puma, un coyote o un orso. Il repertorio di Ishi comprendeva vari richiami, quello della quaglia e dello scoiattolo grigio, il grido dell’oca selvatica e quello di molti altri uccelli e animali. A volte colpiva prede piccole da una distanza molto ravvicinata – un coniglio da quattro i cinque metri – ma sapeva essere preciso anche su distanze maggiori, anche di quaranta metri; tirava agli uccelli on volo e agli animali in fuga, tuttavia preferiva il colpo a breve distanza e quando l’animale era immobile. Era sempre molto attento a restare sottovento rispetto alla preda, e data la silenziosità dell’arco, gli animali non si mettevano in allarme nemmeno quando una freccia non li mancava di poco. Con le sue imitazioni dei loro versi li attirava verso di sé, suscitando il loro interesse o la loro curiosità, facendone in questo modo dei comodi bersagli. La curiosità degli uccelli e dei mammiferi, che i cacciatori primitivi sanno sfruttare a loro vantaggio, non può essere di aiuto al cacciatore moderno armato di fucile: lo sparo, infatti, incute negli animali un terrore che paralizza ogni altra reazione o emozione. Ishi, e come lui tutti gli arcieri solitari, non introduceva nessun elemento estraneo nell’ambiente naturale, essendo un possibile nemico tra gli altri, come la moffetta è nemica della quaglia, il coyote del coniglio e il puma del cervo.

SEGUE...


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19/09/2016, 7:55
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Iscritto il: 30/01/2012, 23:04
Messaggi: 646
Io leggendo di qua e di la ho trovato anche citazioni del sig Brizzi e ieri ho provato a fare come lui consigliava. Cioè mettersi "fuori portata" e provare a tirare come vieneviene.... all'ultima freccia ho fatto centro! Sarà stato c..o ma ha funzionato. ( questo non dire che son bravo ma che invece funziona .
Poi interessantissima la storia di Ishi. Il diametro delle frecce di noccilo si sà? e il libraggio dell'arco di Otzi?
Questo quello che ho trovato
http://www.uisp.it/giochitradizionali2/ ... 0LAURA.pdf
e questo il risultato.
Ecco per mè già molto . Poi se porto fuori tema spostatemi.


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19/09/2016, 11:41
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Iscritto il: 12/06/2016, 8:06
Messaggi: 530
Località: Milano
Bravo Ligera!
Guardi che le sue frecce sono tendenzialmente a sinistra.
Ora sparo un po', visto che le frecce sembrano adeguate.
Potrebbe essere che lo sta usando come un arco che ha la finestra?
Sta cioè allineando al bersaglio il fronte dell'arco anziché verificare la perpendicolarità della freccia?


19/09/2016, 14:23
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